La globalizzazione e la continua accelerazione di conoscenza scientifica e tecnologica “costringono” diverse porzioni del mercato italiano ad innovare. Se non ci fosse questa situazione, in Italia innovare sarebbe solo una preoccupazione di ricercatori, consulenti e di qualche imprenditore illuminato. Questa necessità interessa sia le PMI che la grandi aziende.
Leandro ha scritto un interessante post sulla formula del “minor impatto” nelle Human Resources e questa è una mia riflessione un pò più ampia sulla innovazione nelle organizzazioni.
Innovare è una rivoluzione, un profondo cambiamento culturale e sociale per una azienda ….. ma:
- se non si è costretti non si cambia, non si evolve;
- dinamiche di potere guidano le aziende e se non si è costretti ad innovare per sopravvivere (c’è chi preferisce fa morire l’azienda pur di non cambiare) l’innovazione non ha la forza di imporsi;
- la concorrenza è fattore razionalizzante la cultura organizzativa senza la quale l’unica razionalità è il mantenimento dello status quo interno ed esterno;
- non basta che una cultura organizzativa sia razionalizzata dagli obiettivi imposti dalla concorrenza ma deve essere “popperianamente” aperta per adattarsi ai cambiamenti interni ed esterni (molte organizzazioni sono razionali ma non sufficientemente aperte);
- mediamente non si vuole essere parte di una innovazione …. si vuole un lineare “stare bene” (un misto tra cacciatore raccoglitore e la difesa della matrice).
Tutto ciò però non basta a fare un quadro perché oggi innovare è molto più rivoluzionario di prima che piaccia o meno. Quindi da un lato è sempre più necessario (non si può rimandare, aggirare) ma allo stesso tempo è più difficile. Sia per chi l’innovazione non vuole subirla, sia per chi la propone.
Per esempio, internet sta cambiando la società in quanto muta la potenza e diffusione di gestione e produzione di conoscenza. Questo ha ricadute sulle vite individuali e sulla collettività in quanto cittadini, lavoratori, studenti, pazienti, consumatori …. persone.
L’Enterprise 2.0 è una delle principali “etichette” per descrivere la mutazione indotta da internet nelle organizzazioni. Bene, molte persone che oggi hanno un ruolo manageriale d’azienda non sono in grado di farsi carico di questo cambiamento.
Questo si avverte particolarmente in Italia dove internet si è diffusa più lentamente e l’età media delle persone con responsabilità in azienda è più elevata che in altre economie occidentali. Ma ripeto, che sia chiaro, è più un discorso di mentalità che di età. Questa situazione porta a mille resistenze e ad una lentezza cronica verso l’innovazione che quando è ormai mainstream non si tratta più di intercettare il cambiamento, di cavalcarlo ma di semplice “inseguimento”.
Ci sono segnali che la necessità di cambiare sta crescendo, il 2010 potrebbe regalare sorprese interessanti per chi saprà muoversi in tempo.
Per quanto riguarda chi propone l’innovazione, deve farsi carico di molti più fattori che richiedono competenze ponte tra conoscenze e abilità diverse. Innovare, dentro e fuori l’azienda è sempre più una rivoluzione sociale e culturale quindi spesso non basta avere una buona idea o un buon prodotto. Ci vuole visione, networking, capacità imprenditoriale, di comunicazione e scambio continuo con altri esperti in quanto il cambiamento è troppo veloce e complesso per muoversi con la lentezza, la chiusura e la verticalità di un tempo. Quindi è molto più difficile anche proporre innovazione.
Rimanendo nell’esempio dell’Enterprise 2.0 non bastano le competenze tecnologiche o organizzative, ci vuole anche IxD, Ux, Psicologia, ecc..
Il rischio per molte aziende è quello di affidarsi a team di consulenti con competenze troppo verticali, su un unico fronte, mentre il vero differenziale nella E2.0 è proprio la centralità del design dell’interazione che unisce tecnologia e cultura organizzativa.
[Image: Vermin inc]