“It is also the sort of basic psychological research that we desperately need in the Web 2.0 world where major sites like Facebook are constantly being redesigned on the basis of little real understanding of how people engage with their computers.
Vast amounts of work have been done in our attempt to understand human psychology, and the investigation of how we can use computer systems for co-operative work has been going on for decades, yet few of today’s user interface designers seem to make use of the things we already know.”
penso che per quanto sia il reinventare la ruota in realtà molto spesso si tratta di identificare con certezza se quella ruota funziona in quel contesto.
Per quanto conosciamo alcuni schemi mentali che gli utenti intraprendono “di solito” su certi siti non possiamo mettere la mano sul fuoco che funzionino sempre e comunque… se poi calcoliamo che facebook potenzialmente si rivolge ad infiniti pubblici diventa un delirio
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Il fatto che FB et al si possano permettere di aggiustare la rotta con tanta rapidità è dimostrazione di un fenomeno di adattamento notevole, ma è soprattutto sintomo del fatto che, sebbene si siano passate decadi a sviluppare cscw, lo si è fatto per un mondo che non esiste più.
Interpretato attraverso la lente di un medium come facebook, il concetto stesso di lavoro (e in un certo senso anche di cooperazione, supporto e computer) va reinterpretato.
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Si, è vero: ci sono cambiamenti sostanziali persino nel modo in cui percepiamo ed interpretiamo il mondo (vedi la nuova generazione, “nativamente multitasking”).
Però questo non significa che quello studiato in precedenza sia fallace, né che gli studi si siano fermati anni fa!
Se studio l’apprendimento assistito come citato nell’articolo linkato da Gian, il risultato che ottengo è validissimo tutt’oggi.
Il problema è che ad oggi ci sono anche studi in merito, solamente che sono quasi completamente ignorati da chi progetta.
In altri termini, per usare le vostre metafore:
1. “Loro” stanno già verificando quali ruote e quali schemi mentali funzionino, ma chi progetta lo sa e lo applica?
2. “Loro” stanno già interpretando la rete attraverso le nuove lenti, ma chi progetta lo sa e lo applica?
La risposta purtroppo è quasi sempre no. Nessuno affronta realmente questa interdisciplinarietà.
Problema aggiuntivo, questo lo vivo quasi giornalmente sulla mia pelle, è la difficoltà di reperire fonti che possano essere trasversalmente utili. Da qui la domanda: “Come possono le figure ibride connettere pezzi di diverse discipline, se è difficile trovare i pezzi?”.
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Punto di vista da game designer. Ehi, ci siamo passati! Una di quelle conoscenze pregresse che cita Thompson possono arrivare da lì. Fin dagli albori il medium videogioco si è scontrato con uno scoglio non indifferente: quello di fare comprendere le regole e i comandi al giocatore nel modo più trasparente possibile.
Perché nessun giocatore legge il manuale e tutti si aspettano di cominciare a giocare subito. Anzi, ora che ci penso esistono due approcci differenti alla cosa, che a ben vedere si ricollegano a due modi di vedere la psicologia (per quel poco che ne so, quindi perdonami se scrivo cacchiate):
– un approccio behaviorista, il cui capostipite è Rick Dangerous, ma che ha epigoni “pesanti” come Tomb Raider e Prince of persia: sei in un mondo che non conosci e impari qualcosa di nuovo ogni volta che sbagli e muori. Non hai modo per evitare certi ostacoli, devi prima scottarti, crepare e imparare.
– un approccio più cognitivista, cito Mario Bros, ma moltissimi giochi sono così. Qui tu come giocatore apprendi una skill in un ambiente safe. Un sistema di feedback ti fa capire a) cosa devi fare e b) a cosa servirà in seguito. Successivamente quella skill sarà richiesta per superare ostacoli.
Ora, per arrivare a mettere in atto strategie simili l’approccio del game design moderno è simile all’agile: prototipare subito l’idea e successivamente affinarla per iterazioni, mettendo al centro il gioco e il giocatore.
Il che poi ci porta all’ambiente dinamico di Facebook (che comunque secondo me dal punto di vista dell’interaction design pecca ancora parecchio).
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Luca: io e Foll, sul tema della transdisciplinarietà, troppo spesso di facciata, la pensiamo alla stessa maniera. Poi possiamo discutere sulla difficoltà per il designer di integrare conoscenze con vari gradi di profondità e diramazione. A proposito, sempre Foll, pone alla fine del suo commento una domanda interessante.
Bru: si …. bisogna reinterpretare diverse cose ….
Foll: beh, come hai già avuto occasione di proporre altre volte, ci auguriamo che la necessità e validità di competenze ibride facciano emergere migliori forme di rappresentazione e comunicazione delle conoscenze per massimizzare.
Kurai: interessanti stimoli, credo però che il punto sia che, con all’evolvere delle interfacce e delle interazioni, emerge la necessità di confrontarsi con diverse e più complesse dinamiche psicologiche e neurologiche.
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