Enterprise 2.0 – Varese

Ieri sono stato all’International Forum on Enterprise 2.0 a Varese.

Nel complesso un interessante fotografia dello stato dell’arte a livello internazionale. L’intervento che mi è interessato di più è stato quello di Norman Lewis che rifletteva sull’importanza di capire i digital natives per costruire una Enterprise 2.0 e gestire il passaggio di paradigma culturale che la tecnologia sta portando (ho iniziato l’anno scorso una medesima ricerca nell’Osservatorio sul Knowledge Management PKM360°).

Se per qualcuno non è ancora chiaro, spero di no, la rivoluzione che sta innescando la ICT trova i suoi maggiori ostacoli nei cambi culturali e generazionali. Non si tratta solo di tecnica, come da più di 10 si continua a ripetere nel Knowledge Management.

Da tempo sto lavorando come consulente aziendale proprio sui fattori psicologici e sociali che possono permettere un passaggio meno traumatico della cultura organizzativa verso l’adozione di logiche 2.0 o da Social Network come mi capita più spesso di dire.

La tecnologia va più veloce della cultura di interazione degli utenti e questo non solo dentro le aziende ma anche nella vita quotidiana. Anche per questo il Web 2.0 per ora rimane più una rivoluzione culturale che di business (se escludiamo il business di fare una startup e farsi comprare).

Quello che fa la differenza non è vendere una piattaforma, anche se 2.0 come un wiki, mantenendo vecchi logiche ma diventare esperti della cultura d’interazione che sottende le realtà che emergono dalla selezione natura del Web 2.0 e trasferirla in modo graduale, insieme alle nuove applicazioni, nell’azienda.

Entro settembre, tornerò sull’argomento in modo molto più significativo e sostanzioso con una sorpresa 😉

35 pensieri su “Enterprise 2.0 – Varese”

  1. Questa tua riflessione, che condivido pienamente, mi ricorda i ragionamenti di Lee Bryant nei suoi speech dove dice che il grosso del lavoro per introdurre l’e2.0 nelle imprese è quello di costruire prima la cultura, poi i piccoli gruppi di primi adottatori e poi diffondere il vantaggio competitivo di questi nell’organizzazione

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  2. Sono del tutto d’accordo con te. Credo possa fare molto, però, anche il formare case-study di successo di piccole e medie aziende giovani che, partite utilizzando questi strumenti e con una cultura di rete condivisa, si siano fatte strada. Da noi ce ne sono ancora poche, ma credo sia questione di pochissimo perché il panorama cambi.

    Un piccolo appunto solo sull’accenno ai digital natives. Quella tra nativi e immigranti digitali è una dicotomia che mi convince molto poco, per tutta una serie di motivi empirici. Banalmente: non vedo, almeno in Italia, effetti nel comportamento di chi è nato con i media digitali, se non marginali e comunque confinati a chi abita la rete.

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  3. Maurizio, credo che prima di sputare sentenze bisognerebbe leggere almeno il programma ed il sito dell’evento.. (o addirittura partecipare)? Questi convegni? 😀 quali convegni?

    Non mi interessa molto difendere il forum, perchè credo basti chiedere a chiunque fosse lì. Mi fa ridere chi continua, qui veramente in modo superficiale, a regalare sentenze su cose di cui non sa.

    La conferenza non era certo sulle interazioni o sulla progettazione (di nulla, tanto meno dell’interazione), ma sull’Enterprise 2.0 e sui suoi impatti di business/organizzativi(leggi = cultura?) e sulle modalità di coltivazione che vengono molto prima per le aziende della progettazione di soluzioni anche da un punto di vista di user experience.

    Sono convinto che la profondità sia stata immensa, basta leggere temi e speaker affrontati in una sola giornata. Si è passati dalla SNA, all’impatto generazionale, strategico-organizzativo, ai casi mondiali ed internazionali, a sessioni di domande con quelli che stanno facendo l’enterprise 2.0 a livello mondiale.. ed in modo gratuito..

    Su Luca e Federico.. abbiamo parlato al 90% di cultura, coltivazione, pilot, vantaggio competitivo, aziende giovani che lo stanno facendo e critiche anche alla dicotomia nell’adozione tra giovani e più anziani.. che dite di partecipare la prossima volta? 🙂

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  4. Emanuele, non parlavo di questo convegno in generale, ma delle slides di almeno un centinaio di convegni di ogni parte del mondo che ho letto nell’ultima settimana. Non stiamo ancora entrando veramente nel cuore dei problemi. La mia non è certamente una critica, ma una richiesta.

    Forse non lo sai ma la Società di cui sono partner fa parte di un Gruppo che è stato il principale promotore di PKM 360, un progetto importante sul Knowledge Management a cui Gianandrea ha partecipato attivamente, ma anche li ho sentito la necessità di scendere nel dettaglio, perchè è molto difficile affrontare i temi generali senza una maggiore contestualizzazione.

    Auspicherei convegni con sessioni generali e sessioni specifiche.

    Per il resto ti vedo ipersensibile, quando si tocca una tua creatura, sono solo conversazioni 😉

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  5. @Federico, il focus sui nativi digitali invece a me convince moltissimo, lo vedo ogni giorno con le mie figlie e il loro rapporto con i media e con le tecnologie digitali. Pensa che mia figlia Emma ha solo tre anni e utilizza il telecomando di Sky in un modo incredibile, scegliendo il suo palinsesto personale tra i diversi canali di Cartoon.

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  6. solo un piccolo spunto 🙂

    credo che il parlare di ‘ostacoli’ nei cambi culturali e generazionali, di fronte a cambiamenti spinti dal settore tecnologico, voglia dire presupporre che detti cambiamenti siano per forza benefici e da conseguire. pertanto, è opportuno dedicare tempo alla comprensione delle necessità delle persone non addette ai lavori, e avere la visione di quanto certe cose impattino in positivo ed in negativo sulla loro esistenza, prima di perseguire lo scopo di spingere per la loro adozione. dopotutto il mercato libero è cominciato quando le offerte sono nate per soddisfare le richieste, e non il contrario 🙂

    proprio per questo in tutto ciò vedo soprattutto grandi vantaggi: è possibile comunicare un’idea, condividere discussioni, e su questo costruire, invece di imporre un oggetto all’adozione di massa. un esempio lampante che è vicino ad alcuni di noi in questo periodo? di internet of things ne parlano in tanti, parecchie tecnologie si stanno sviluppando, molte tra queste spinte da grossi gruppi industriali [parte telecom, parte reti di sensori, parte altro]. eppure con OpenSpime, partendo proprio dalla cultura e dalla comunicazione, abbiamo prima cominciato da una lato con il percepire cosa interessasse davvero ai non tecnici di tutto questo, e dall’altro a proporre una cultura tecnologica che fosse da subito aperta alla collaborazione.

    non posso che condividere quindi la necessità di un approccio psicosociale, e leggerò volentieri la tua sorpresa 🙂

    r.

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  7. @Maurizio: poi ne parleremo, ma non si tratta di ipersensibilità quanto di sentire critiche che mi sembrano, senza voler fare polemica, poco specifiche, poco legate al contesto e poco costruittive. Ho detto la stessa cosa l’anno scorso su web2.oltre. Mi sarebbe piaciuto averti nel pubblico ed aver letto una critica nel merito su un intervento, sulla struttura, etc.

    Se le conferenze sono sorpassate, inutili, superficiali, mi chiedo perchè migliaia o decina di migliaia di persone attraversino il mondo per parteciparvi e.. magari conoscere esperti, amici, o semplicemente nutrire un pò il proprio cervello. Credo che le sessioni specifiche siano auspicabili quando vuoi coprire contenuti in qualche modo slegati e con un numero molto elevato di partecipanti. Non credo che nel nostro caso avesse più di tanto senso (a parte considerazioni logistiche).

    E sulla tua osservazione riguardante tua figlia.. avresti davvero dovuto ascoltare l’intervento di Norman Lewis :D:D. Fatti raccontare da Gianandrea.

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  8. Emanuele, non so. Quel che dici è giusto, ma io ho letto la lista degli interventi e la cosa che mi ha più spaventato è stato leggere “Business Lunch & Networking”. “Networking”? 😀 😀 😀
    Alla fine ho deciso di non venire, probabilmente ho sbagliato, ma davvero, dai titoli e dai testi pieni di hypewords che leggevo sul sito sembrava il solito evento-marketta (salvo qualche notabile eccezione).
    Questo per dirti che io ho probabilmente perso un’occasione interessante, ma se la mia percezione è stata sbagliata come mi dici, ritengo ci sia un grosso problema di comunicazione, no? 😉

    Chiudo sul discorso dei nativi digitali, citando Jan Chipchase: “Technology is everything that was invented after you were born.”.

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  9. Confermo, ero presente e sono rimasto colpito dalla qualità dei carismatici speakers e dei contenuti.
    Personalmente adoro wikies, blog e chat, del social bookmarking (in internet però), sono un fautore dell’open enterprise, e dell’eliminazione dove è possibile delle compartimentazione dei contenuti aziendali, ho curato ben due blog aziendali da un bel pò prima che si parlasse di web 2.0, e tuttavia questa “Enterprise 2.0” non mi convince fino in fondo, mi sembra un’altra buzzword per vendere qualche prodotto software in più, che rischia di creare più delusione che altro se rimane solo un’altro insieme di strumenti.
    Per me l’enterprise 2.0 è davvero una questione di cultura, educazione, formazione più che di tools. Se badate bene si può fare ent2.0 senza wikies (un bel documento condiviso), senza tagging (utilizzando il filename tagging), senza le chat, i files basta lasciarli aperti e accessibili ed utilizzare un bel motore di ricerca.

    PS qualcuno sa dove recuperare le slides?

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  10. Beh, poi uno di cosa parla, quando commenta? Parla di quello di cui si occupa maggiormente, essendo impossibile coprire tutte le discipline. Quindi io riconduco quello di cui state parlando alla mia esperienza di manager e studioso di complessitá.

    E ricordo di aver studiato sulle Bibbie del management che, in epoca di entusiasmo da automazione, tutto doveva essere automatizzato. Salvo accorgersi poi che, se alla base ci sono inefficienze e ambiguitá, si sono automatizzate le inefficienze e le ambiguitá. Non vorrei che tutto questo tam tam (neanche cosí fragoroso comunque) sull’enterprise 2.0 celasse lo stesso rischio.

    Quello che voglio dire, riprendendo anche quanto detto da alcuni di voi e che probabilmente é stato sottolineato anche al convegno, é che sono le persone che fanno le organizzazioni. Si possono mettere wiki, blogs, chat e quello che volete, ma sono i cuori e le teste delle persone che fanno le organizzazioni. Quindi per prima cosa bisogna agire, secondo me, sulla cultura: cultura della relazione, dell’apertura, dell’emergenza.

    E’ un fatto culturale. Noi tutti, tutti, ci aspettiamo l’ordine, la gerarchia. E’ tutto molto piú tranquillizzante: so a chi riporto, so chi riporta a me. Illusione di ordine e prevedibilitá. E ci aspettiamo ancora che chi sta in alto, sappia bene dove stiamo andando, “abbia tutto sotto controllo”. A cosa serve immettere strumenti del web 2.0 in questo contesto? Secondo me a niente. Noi che parliamo di pensiero sistemico, a mio avviso, dobbiamo essere i primi ad agire in ottica sistemica, considerando che un cambiamento, per essere davvero tale, ha bisogno di integrare l’organizzazione, i processi, la cultura, i sistemi incentivanti e anche i tool.

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  11. Luca, credo tu abbia centrato completamente il punto della questione. 🙂

    La mia domanda aggiuntiva è: quanto è possibile realizzare cambiamenti di natura sociale in una struttura aziendale in cui si è storicamente formata una altra cultura?

    Anche perché, come sappiamo, le persone si autoselezionano: una volta creato un nucleo centrale, arriveranno nuove persone compatibili e verranno allontanate quelle meno compatibili.

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  12. @Maurizio: Nel complesso l’evento è stato rappresentativo e ben fatto soprattutto per fare un quadro generale. Ma raccolgo la provocazione che lanci in quanto la questione dell’entrare più nel merito mi sta molto a cuore, anche perché è lì che poi saltano fuori le competenze 🙂 E’ palese che la sfida principale è l’integrazione tra cultura organizzativa e nuova tecnologia. Quindi è necessaria una grande competenza non solo sul sistema macchina e organizzazione ma anche sul sistema uomo e gruppo, non dimenticando tutte le competenze di mezzo, collante, ibride, di interazione complessa tra questi sistemi (e altri). E’ un limite che tecnici e designer spesso cerchino di andare oltre le loro competenze o di approssimare troppo quelle esterne alla loro specificità, ma bisogna anche dire che per esempio ci sono pochissimi psicologi (campo che mi appartiene e conosco) che si propongono in questi ambiti in modo competente e forte come esperti del sistema uomo/utente/cliente/dipendente/professionista e gruppo. Soprattutto sapendo integrare le proprie competenze con quelle degli altri esperti. TRANSDISCIPLINARIETA’ ne parlo da anni, c’è anche nel titolo del blog 🙂 ….. quanti sanno integrarla ad alto livello?

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  13. Rispondo con una battuta, una citazione:

    “creare il cambiamento in una societá manifatturiera è facile quanto smettere di fumare” (Richard E.Morley)

    é quello che stiamo, comunque, cercando di fare..

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  14. Luca@: sei designer nel DNA! 😀
    Mi piace il tuo riportare sempre le discussioni in modo pragmatico a modelli, a prassi, ad esempi da te apprezzati. Questo aiuta ad affrontare le sfide i problemi e oggi abbiamo un incredibile bisogno di questa mentalità da designer (nell’uso anglosassone del termine più che italiano) per rispondere in modo ibrido ma pragmatico alle sfide. Un bel evento sul design come approcio mentale e culturale ai problemi?! 🙂

    Nello specifico strategia di Lee Bryant è ottima e il più delle volte la più adottata, poi bisogna vedere di volta in volta, gli scenari e le differenze possono essere veramente tante. Io ho sviluppato una metodologia negli ultimi tempi ma ne parlerò in modo approfondito a settembre 😉

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  15. Federico@: le piccole società nate su logiche 2.0 sono utilissime da studiare ma le tipologie di muri che si incontrano con le grandi aziende hanno spesso poco a che fare con la razionalità di una cosa che funziona soprattutto se complessa e richiede profondi cambiamenti in certe logiche di comunicazione, potere, valori interni all’organizzazione, ecc., ecc..

    Quali sono i tuoi dubbi sui nativi digitali, che non c’è differenza? Mmmm….

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  16. Emanuele@: maurizio è un pò punzecchiatore, è vero 🙂 ma non lo fa per demolire bensì per stimolare la discussione …. che poi ogni tanto non gli riesca bene è un’altro discorso 😀 😀

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  17. Roberto@: hai dato uno stimolo molto interessante. Io ripeto sempre, sino alla nausea, che non bisogna avere un atteggiamento ingenuo e quasi ideologico rispetto al cambiamento. Effettivamente c’è troppa gente che fa “copia e incolla” pompando applicazioni 2.0 e “colludendo” con il mal sano desiderio di alcuni clienti di “cambiare” per in realtà non cambiare nulla! Oppure vengono giustamente rimbalzati vendendo le dinamiche sociali e bottom-up come accessori di una tecnologia 😛

    Sono troppo complesse e ci coinvolgono troppo come persone e non solo come professionisti le logiche da SN che il 2.0 sta portando in azienda, ci vogliono molte competenze e diverse sensibilità.

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  18. Foll@: beh, foll, era un evento in un contesto universitario ….. insomma ci siamo capiti (chissà che fatica per Emanuele 🙂 ). Comunque, si l’evento era più interessante di come poteva apparire di primo acchito.

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  19. Si sono punzecchiatore ha ragione Gian, non sempre mi riesce 😉
    Mi trovo molto d’accordo con Luca, non vorrei che l’Enterprise fosse l’ennesima moda, ne abbiamo viste passare così tante, quando il vero problema è la gestione del cambiamento favorendo l’integrazione di competenze, tecnologie, processi e modelli attraverso la valorizzazione delle persone e del loro ruolo nelle organizzazioni.

    E’ vero ciò che dice Gianandrea, non si tratta solo di tecnologia, degli aspetti psicologici e sociali se ne scrive da anni anche se vengono riscoperti oggi.

    E’ importante scendere ancora più nel dettaglio per approfondire i singoli aspetti, ma anche per trovare una visione di insieme. Ogni momento di confronto è importante, l’importante è cercare di superare le etichette.

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  20. Scusatemi ma mi viene da ridere: change management, cultura, non è la tecnologia, benefici per il singolo.. sono i quattro concetti che si sono ripetuti in tutte le salse, fino allo sfinimento sul palco (Gian ti prego di confermare o di smentirmi se sto dicendo cavolate). Continuo a dire che per parlare bisogna partecipare, come hanno fatto alcuni dei commentatori.

    Io, in prima persona ho parlato (oltre che di efficienza, innovazione, conoscenza tacita, emergenza, socialità, apertura, piattaforme, etc etc etc) di un processo che parte dai bisogni di business, che individua un gruppo di friends e coprogetta la soluzione (molto poco tecnologica, molto sui contenuti, ritmi, modalità di engagement).

    Ripeto che mi piacerebbe ascoltare qualche considerazione sul merito (anche critiche ovviamente). Nel merito:

    L’enterprise 2.0 non è una moda, perchè non risponde a nuovi problemi e forse neanche utilizza strumenti nuovi. E’ una concezione diversa di organizzazione più partecipativa, emergente, orizzontale, basata su coinvolgimento e comunità di pratica, etc etc. Qui non si tratta di software e noi personalmente non facciamo e non vediamo software, cerchiamo invece di risolvere alcuni problemi in un modo diverso, in alcuni contesti più efficace. E’ l’opportunità che guida la soluzione, non viceversa.Tutto qui.

    Sul cambiamento di cultura: siamo tutti convinti che sia questo, ma si tratta di un cammino, che per la mia perrsonalissima esperienza accade e sta accedendo dentro moltissime aziende che sto seguo direttamente. Non si parla tanto di tecnologia quanto di sistemi di incentivazione, di localizzazione di competenze, di coinvolgimento e responsabilizzazione dell’individuo per produrre ad esempio un’innovazione costante e diffusa.

    @Nicola: come detto a tutti quelli che hanno scritto per chiedere, i contenuti saranno messi a disposizione gratuitamente online (appena riesco a respirare un momento :>)

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  21. Non hai ancora capito, sto solo dicendo andiamo ancora più avanti, scendiamo nel dettaglio, definiamo contorni e contesti in cui applicare concretamente i concetti. Tutto qui, mica contesto nulla, altrimenti la conversazione si incarta, per il resto gli apprezzamenti sui contenuti della conferenza ci sono stati. Let’s move on.

    Ci sono stati qui in questo post alcuni commenti molto interessanti che hanno lanciato diversi spunti di riflessione. Li ho riletti tutti nuovamente con interesse.

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  22. Colgo l’occasione di questa tua per una riflessione sui Digital Natives e la necessità di – come dice Norman Lewis – di capire i digital natives per costruire una Enterprise 2.0.
    Una mia netta sensazione, che ho percepito durante ore di formazione a giovani meno giovani, e che l’essere Digital Native non è almeno in italia un valore condiviso e connaturato nelle giovani generazioni.
    Anzi.
    L’esserci nato, non denota nulla e spesso la pervasività della tecnologia tende nelle persone alla svalutazione, alla banalizzazione.
    Soprattutto in una cultura attuale – come la nostra – che per storia e per attitudine è sospettosa e timorosa di ogni innovazione, la dove l’innovazione e’ la bassettiana “realizzazione dell’improbabile”.

    Dunque quello che emerge – per me – è una diffusa incapacità nei giovanotti di capire cosa diavolo farci dell’innovazione, se non attuarla e consumarla rapidamente nell’ambito della moda o al massimo del fatto di costume, come tra l’altro la tecnologia della comunicazione viene… comunicata dai media, non c’e’ da stupirsi, dato che quello che emerge e’ al massimo “il bizzarro della rete”.

    Concludendo e provocando: il web 2.0 è una tecnologa da babyboomers, da chi aveva vent’anni negli anni 80 e che deriva la sua cultura da… ibridazioni ideologiche, una visione di società, una predisposizione al nuovo e una insaziabile curiosità critica ( concedo che quest’ultima prerogativa non e’ esclusiva…) che contraddistingue oggi chi intensamente e quotidianamente è immerso nel 2.0.

    Diavolo fate un po’ il conto dei blogger che conoscete, e dategli un’età…

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  23. Sul discorso nativi digitali: secondo me si fonda su una dicotomia del tutto artefatta. Io continuo a vedere cosiddetti nativi digitali totalmente incapaci di rapportarsi con le tecnologie con cui sono nati, e cosiddetti immigranti digitali che invece ne hanno compreso perfettamente i linguaggi e sono in grado di padroneggiarli quanto le persone più giovani.
    Ma è un discorso lungo.

    Sul discorso relativo alla grande impresa, beh, non conosco abbastanza l’ambiente per dire la mia, probabilmente. Ma resto convinto che vedremo sempre più modalità di organizzazione diverse a quelle a cui siamo abituati, basate sull’aggregazione ad hoc di piccole realtà. Ma questa ovviamente è una scommessa e una sensazione da profano 🙂

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  24. Purtroppo a Varese sono arrivato con un discreto ritardo (tipo, verso la fine 😦 clienti chiacchieroni :-D) e mi dispiace di essermi perso questo intervento che deve essere stato sicuramente interessante.

    @Federico ne discutevamo ieri con Stefano Lazzari (stex auer), e secondo me non è così vero che la dicotomia è artefatta né tantomeno che ci sia questa indisposizione da parte dei cd. “nativi digitali” all’uso delle tecnologie. Le analisi, secondo me, sono 2: la prima è che i nativi digitali non fanno caso alle tecnologie, e per questo sembra che non se ne interessano. Nella realtà, quello che guardano (o guardiamo, e sì, ci sei dentro anche tu :P) è al fine, allo scopo finale, e non si lasciano condizionare dal doverlo necessariamente raggiungere con la tecnologia. Gli “immigranti digitali”, dal canto loro, fanno della tecnologia il centro del discorso, il cambiamento è sempre prima tecnologico e poi culturale, per cui l’importante è fare il wiki aziendale, non tanto formare il personale per questo nuovo approccio culturale. La seconda analisi che mi sentirei di fare è che ad oggi quasi nessun nativo digitale è in una condizione di poter decidere alcunché in azienda: sono appena entrati i primi, il loro apporto rimarrà relativo finché non raggiungeranno posizioni sufficientemente elevate da poter effettivamente decidere qualcosa. L’importante ora sarà sfruttare la traction che possono dare questi nuovi dipendenti e farli diventare l’inizio del cambiamento: il fatto che non abbiano mai contribuito a Wikipedia non significa necessariamente che non siano in grado di relazionarvisi, e anzi è estremamente più probabile che la loro formazione “digitale” sia stata molto più trasparente e meno evidente di quanto sembri. Come ho detto, la vedo più come una questione di approccio che di tecnologie: ma d’altra parte basterà metterli alla prova 🙂

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  25. Accidenti che bella sfilza di interessanti commenti ,che ho letto con estremo interesse.
    Secondo me e’ un problema di architettura dei server che stanno alla base di qualsiasi concetto 2.0 ,non c’e’ allineamento dei database , e non esiste nemmeno un data dictionary comune, l’interoperabilita’ poi e’ un sogno , stiamo ancora lottando con il protocollo di comunicazione asincrono.
    Ci sono dei problemi tecnici quando le variabili passate da un server all’altro inspiegabilmente cambiano di valore pur rimaendo con lo stesso nome.
    Questo e’ in parte attribuibile ai differenti sistemi operativi ed alla data delle release di aggiornamento (ci sono differenze anche di 20 anni)
    Un po’ meglio andiamo con il multitasting di questi server, che sono molto evoluti , anche troppo, perche’ succede che nell’attuare un processo di cooperazione tra le CPU alcuni processi che non c’entrano niente ma che stanno girando prendono il sopravvento e distolgono risorse ed alcune volte, purtroppo ,usano le stesse aree di memoria per due processi diversi.
    Concludo affermando che sino a che non abbiamo messo mano a questi server chiamati volgarmente impiegati,dirigenti,imprenditori a seconda della capacita di memoria (ma non dalla potenza della CPU) , non riusciremo ad incidere nel loro ecosistema semplicemente appoggiandovi sopra applicazioni complesse che devono fare i conti con questi “server”

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  26. @Emanuele: Si sono emerse quelle parole chiave e quei concetti al forum, anche perché sono la vera sfida da sempre (vedi KM) e nel mondo ICT le competenze a riguardo sono poche.

    @Maurizio e Emanuele: su su non fate così … 😀

    @stex e fede: i babyboomers sono la generazione nata dopo la seconda guerra mondiale e i nativi digitali quelli nati negli anni ’90 🙂 detto ciò, capisco il tuo stimolo ed è legato, io credo, alla enorme difficoltà che anno gli adolescenti di oggi a immaginarsi un futuro, problema che precede innovazione e internet ( dovuto ad una marea di motivi … ma non c’è spazio qui). Noi della generazione X (nati tra il ’65 e l’82) stiamo facendo nostra questa tecnologia dal punto di vista culturale e professionale ma non sottovalutare la cultura d’interazione degli adolescenti e le differenze cognitive dei più piccoli.

    @Antonio: si, c’è uno sfasamento di velocità notevole tra tecnologia, web 2.0 e mondo aziendale, non che cultura d’interazione professionale e privata. Che ci piaccia o meno molti cambiamenti si dilateranno non poco rispetto alle nostre aspettative 2.0

    @ Michele: per fortuna che era un cambio culturale e non solo tecnico! 😀

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  27. Purtroppo non ho potuto essere presente all’evento per banali motivi personali. Ho seguito comunque con estremo interesse e piacere il dibattito creatosi su questo blog, apprezzandone anche i toni accessi e i riferimenti polemici: basta con il buonismo a tutti i costi 🙂

    Che l’innovazione portata dall’Enterprise 2.0 sia culturale prima ancora che tecnologica (e di conseguenza di business) credo sia il nodo centrale di ogni ragionamento a riguardo. Un errore comune è infatti quello di leggere il progresso alla base di concetti come “wikinomics” o “peer production” con i paraocchi del determinismo tecnologico. Adottando, infatti, un approccio tecnologicamente determinato, potremmo affermare che un progetto come Innocentive si sia affermato globalmente più per i meriti della piattaforma tecnologica che per un deciso cambio di paradigma nel modo di intendere le strategie di ricerca e sviluppo di un’azienda.

    Naturalmente la verità sta nel mezzo, proprio in quello spazio neutro che esula da qualsiasi forma di determinismo, fosse questo tecnologico o, all’estremo opposto, sociale. Purtroppo però, come già alcuni di voi hanno messo in evidenza, sono fermamente convinto che il ritardo italiano in tema di Enterprise 2.0 sia più che altro culturale, proprio perché le grandi società, così come le piccole e medie imprese, tendono a risentire di una cultura aziendale “solipsistica”, incapace di condividere in modo orizzontale conoscenza e risorse specifiche.

    Senza prenderci in giro, ma voi sentite davvero di poter testimoniare a favore di realtà imprenditoriali italiane capaci non solo di comprendere appieno ma ancor più di mettere realmente in pratica i principi basilari della wikinomics? Laddove Tapscott e Williams immaginano le “ideagorà”, io vedo il più delle volte semplici marketplace made in Italy caratterizzati nella quasi totalità dei casi da un semplice meccanismo: dammi la tua idea, io ti metto in contatto con il brand e insieme proviamo a realizzarla (vale più o meno per Zooppa, BootB, Qoob, The Bloog Tv e compagnia bella). Di certo un deciso passo in avanti rispetto al passato, ma l’Enterprise 2.0 non può e non deve limitarsi a questo.

    Tornando invece al discorso sui digital natives, concordo anch’io sulla necessità di valorizzare un approccio psicosociale, ma anche quest’ultimo, da solo, sarebbe destinato a fallire. Se il web 2.0, come dicono in molti, è fatto dalle persone per le persone (fate attenzione: “persone”, non “utenti”), ma allora chi dovrebbe avere l’ultima parola a riguardo, i sociologi, gli psicologi, o gli informatici??? Naturalmente anche questa falsa dicotomia non può che ricadere nel paradosso, nella provocazione, necessitando proprio di quell’approccio ibrido, trasversale, al quale più di una volta ha fatto riferimento Gian.

    Al di là dell’approccio specifico o del punto di vista che scegliamo di utilizzare nell’analizzare la questione, credo che uno dei principali problemi risieda nella mancanza o nella scarsa efficacia di strategie comunicative improntate sulle reali esigenze ed abitudini dei digital natives. Mi sembra che il più delle volte (tanto nella formazione quanto in ambito professionale) si commetta il grave errore di chiedere alle generazioni più giovani di “abituarsi” agli standard comunicativi ormai obsoleti delle generazioni precedenti. Se, infatti, possiamo risentire della miopia di un’azienda nel non voler sfruttare le potenzialità del corporate blogging, che dire dei tantissimi professori universitari i quali, pur professandosi esperti di new media e di tecnologie digitali, manifestano l’incapacità di gestire anche un semplice blog personale?

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  28. All’inizio degli anni ’90 ho lavorato per una software house a Boston. Il mio cliente aveva un progetto che, ai tempi, era all’avanguardia. Si trattava di automatizzare dei processi cartacei mediante la messa a punto di un sistema informativo nuovo, un sistema che consentisse la ricerca di testi in tutte le informazioni archiviate, quello che oggi definiremmo “enterprise search” (il mio interesse oggi per i motori di ricerca come Google non è proprio casuale…). Una rivoluzione nella gestione e nel consumo delle informazioni. Come in molti progetti IT che spingono all’utilizzo di sistemi così innovativi, non “collaudati” altrove, c’è stato qualche problema tecnico. Ma la maggior parte dei problemi è emersa nella gestione delle persone e nell’impatto dal passaggio da processi di tipo manuale a processi automatizzati alle persone ed ai loro ruoli. Non è stato dato sufficiente ascolto alle persone coinvolte e scarsa considerazione è stata poi rivolta ai fattori umani nel cambiamento. Quello che, in una grande azienda, oggi viene chiamato “change management”.

    Nel seconda metà degli anni ’90 ho lavorato in una grande impresa americana di informatica. Si è deciso di reinventare il ramo consulenza per dare maggior concorrenza alle Andersen/Accenture del caso. Già si capiva che la tecnologia poteva fungere solo come leva: si parlava appunto di “enabling infrastructure” capace di dare strumenti abilitanti ai processi aziendali. La vera chiave per il successo erano infatti: le persone, i processi (aspetto spesso troppo trascurato in Italia, se posso permettermi…), il capitale intellettuale e la condivisione di queste conoscenze (knowledge management). Un nodo importante, che mi sembra non ancora sciolto, era rappresentato dalle motivazioni per le quali non si condividono le informazioni – elemento essenziale, se tutta questa collaborazione e condivisione 2.14 avviene. Innanzitutto, se il mio stipendio comprende un premio di produzione per il mio contributo, ho tutti gli incentivi per maggiorare la mia visibilità a scapito della visibilità degli altri. Ancora insidioso appare il problema dell’impiego “at will” in alcuni paesi come gli Stati Uniti e la tendenza alla precarietà in Italia. Nel momento in cui l’azienda sia in crisi, tanti vengono lasciati a casa, senza alcuna pietà. Questo problema di fondo incide (e come…!) sui comportamenti. Non nego una certa debolezza per la tecnologia, ma ci vogliono persone come Gian capaci di aiutarci a non dimenticare il fattore umano nell’insieme dei processi e sistemi informativi aziendali.

    Perché scrivo tutto questo?

    Perché credo che Emanuele, e quelli che hanno lavorato con lui, si siano adoperati così tanto per organizzare il convegno al meglio (senza esigere un costo di ingresso ai partecipanti) e quindi meritano davvero un ringraziamento pubblico. Ci sono stati dei relatori di primo livello che ci hanno dato degli spunti molto interessanti (ho fatto un riassunto di ogni intervento che ho seguito: http://www.antezeta.it/blog/enterprise-20-varese/ ). Senza voler offendere Alex Badalic, non credo sia stato semplice convincere il primo ospite internazionale a venire a Varese; magari dopo 2 conferme di adesione, le cose sono diventate più facili… e se Emanuele è riuscito a fare tutto ciò, non è solo che è forse bravo, ma proprio per il Networking che lui è riuscito a crearsi nell’ambito di altri convegni ed eventi. Dico questo per mia esperienza. Nel mio post ho notato che il Networking è altamente importante come gli altri fattori di successo di un convegno. Proprio a Varese ho potuto finalmente conoscere Alex, e rivedere persone come Gian, Leo Bellini, Franceso Federico, Nicola Bertellini…. Persone con le quali so di poter scambiare riflessioni professionali, trovando consenso e, talvolta, dissenso, ma sempre comunque in un’ottica costruttiva. Persone con le quali posso anche collaborare in qualche modo. Qui non c’è niente di male – la “recomendation” in base al merito è più che gradita.

    @Nicola: anch’io sono diffidente relativamente all’utilizzo dei buzzword – se chiediamo già a 10 persone cosa sia “web 2.0”, ma con apologies to Tim O’Reilly, avremo 10 definizioni diverse. Comunque, puoi trovare i link per le slides in fondo al mio post sulla giornata: http://www.antezeta.it/blog/enterprise-20-varese/

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  29. Ho partecipato all’evento e ne ho tratto spunti interessanti.
    La mia esperienza quotidiana con le aziende (che mi danno da campare) m’insegna che c’è tantissimo da fare per traghettarle verso la filosofia 2.0. I problemi sono immensi, sappiamo bene che ci sono moltissime aziende che non fanno nemmeno un backup decente dei dati (peraltro obbligatorio per la privacy). Sappiamo bene che investono pochissimo sull’ict perchè non riescono a vedere ancora la tecnologia come motore del business, sono legate a schemi vecchi, si affidano a partner tecnologici (si fa per dire..) obsoleti. Sono pochi gli informatici che, banalmente, almeno hanno un profilo su Linkedin o su Viadeo….
    In tutto questo noi cosa facciamo? Litighiamo! Critichiamo chi si muove e cerca di mettere in circolo dei messaggi utili.
    Io direi che è giunto il momento di abbassare i toni e di usare un linguaggio inclusivo. Facciamo in modo che agli eventi che parlano di Enterpise inizino a partecipare le aziende e non solo i soliti noti.
    Questo è quello che dobbiamo fare se vogliamo che le aziende si accorgano che c’è un cambiamento epocale in atto. Che si può fare business (anzi si deve) insieme ai CLIENTI! E che il web 2.0 ha permesso la nascita di soluzioni che facilitano il dialogo,. che permettono di condividere la conoscenza, che tengono traccia di cosa vogliono veramente i clienti.
    Leo

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